

Tutti noi abbiamo un’immagine di noi stessi che ci siamo costruiti a partire dall’ infanzia, sulla base dei messaggi verbali e non verbali che abbiamo ricevuto dalle figure significative che si sono prese cura di noi. Questa immagine gravita intorno ad un sistema di convinzioni, credenze e ingiunzioni di diversa natura, e condiziona profondamente ciò che viviamo e sentiamo, come affrontiamo le situazioni, come ci relazioniamo con gli altri.
Accade però che spesso questa immagine sia molto distante dalla nostra reale, autentica e profonda natura, e che quando questa discordanza diventa grande ed insostenibile si crei una condizione di disarmonia e squilibrio: ecco allora che ha inizio la malattia.
La malattia, infatti, è l’esito di una lotta che intraprendiamo contro un’emozione che non vogliamo accettare, che intacca quella immagine che ci siamo fatti di noi stessi. Questa emozione inaccettabile contro la quale lottiamo, non potendo esprimersi direttamente, deve trovare altri modi per farlo e si trasforma in un sintomo psichico, o si sposta nel corpo divenendo un disturbo somatico.
Potremmo dunque sintetizzare dicendo che siamo ammalati dell’idea che abbiamo di noi stessi: non ci ammaliamo per ciò che ci accade, ma a causa del divario tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere di fronte a ciò che ci accade. E non è possibile riparare questa rottura se non incominciamo a prenderne realisticamente coscienza e ad accettarla. Per assurdo, quindi, la malattia insorge per guarirci, incaricandosi di avvisarci dell’esistenza di una profonda dissonanza interiore.
Lo stesso organo attraverso il quale essa si manifesta può rivelarci qual è la natura del nostro blocco emotivo. Ad esempio, le malattie cutanee, come l’eczema e la psoriasi, possono essere somatizzazioni di conflitti legati al contatto fisico; nelle relazioni affettive con l’altro, infatti, la pelle è ciò che ci isola e ci protegge, ma allo stesso tempo è ciò che ci espone: quando lasciamo che qualcuno ci tocchi gli permettiamo di “invadere” il nostro spazio intimo, gli stiamo dando, cioè, fiducia. Ma come ben sappiamo, fidarsi dell’altro è molto rischioso perché significa abbattere tutte le nostre resistenze e le difese che ci siamo costruiti nel corso del tempo in seguito alle esperienze dolorose che tutti, chi più chi meno, abbiamo vissuto. E così restiamo intrappolati nella contraddizione di avere bisogno del contatto dell’altro da una parte, e dalla paura di lasciarci andare e farci conoscere dall’altra. Questo blocco emotivo, se non viene compreso ed elaborato, deve necessariamente esprimersi in un altro modo, trovare un’altra via: la pelle.
Allo stesso modo lo stress, che si manifesta in modo variegato e a livello di diversi organi, contrariamente a quanto pensiamo, non è la causa delle nostre difficoltà, ma l’elemento rivelatore: è ciò che ci avverte che qualcosa nella situazione in cui viviamo è in disarmonia con noi stessi e ci chiede di essere ascoltato e affrontato per poter tornare a stare meglio.
Spesso la malattia ci rivela nodi emozionali legati a ferite del passato mai sanate. Quando parlo di ferite del passato, aldilà delle diverse e soggettive condizioni contestuali e personali, mi riferisco alle seguenti 5 : abbandono, rifiuto, ingiustizia, tradimento e umiliazione.
Queste ferite rappresentano i principali condizionamenti della nostra esistenza e ci impediscono di essere ciò che siamo davvero; infatti, la maggior parte dei problemi di ordine fisico, emotivo e mentale derivano da esperienze in cui abbiamo provato queste emozioni e che non siamo riusciti a rielaborare. Per non sentire la sofferenza che queste ci hanno procurato ci siamo costruiti delle maschere che ci hanno permesso di non vederle, non sentirle, di isolarle. Ma isolarle non significa risolverle. Per il nostro inconscio, infatti, quel passato resta presente, anzi presentissimo: la situazione che ci ha feriti resta come una spina conficcata nei meandri nascosti della nostra coscienza e continua a procurarci dolore finchè non estraiamo la spina.
Come? Ascoltandoci, ammettendo che qualcosa dentro di noi ci sta consumando e che è fondamentale “tirarlo fuori”. C’è un detto che recita “ciò che non viene espresso, resta impresso” e sta a significare che se non do parola al mio dolore, se non gli permetto di uscire, non posso guardarlo in faccia e affrontarlo, ma lo lascio sedimentare e crescere dentro di me. La parola è molto importante, è qualcosa di virtuale, ma ha potere reale, è una forma di pacificazione e di catarsi. La parola mi permette di alleggerirmi di un peso, di lasciare andare una tensione, una pressione, di ridimensionare l’importanza e il potere condizionante di un problema.
Concludo con una frase a mio avviso molto significativa:
“ le parole conoscono delle cose di noi che ignoriamo di esse”. (René Char)
Dr.ssa Nadia Mortara
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